Omesso versamento IVA: quando una sanzione amministrativa preclude la condanna penale

Omesso versamento IVA: quando una sanzione amministrativa preclude la condanna penale

Sulla scorta dell’analisi della giurisprudenza sovranazionale, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 222/2019, mette a fuoco le condizioni di ammissibilità di un “doppio binario” procedimentale e sanzionatorio per l’omesso versamento di IVA.
Il caso
Il Tribunale ordinario di Bergamo sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p., in riferimento agli artt. 3 e 117, comma 1, Cost. – quest’ultimo in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio nei confronti di imputato al quale, con riguardo agli stessi fatti, sia già stata irrogata in via definitiva, nell’ambito di un procedimento amministrativo, una sanzione di carattere sostanzialmente penale ai sensi della CEDU e dei relativi Protocolli.
Nel caso di specie, il giudice remittente era investito del processo a carico di una persona fisica, imputata del delitto di cui all’art. 10-ter d.lgs. n. 74 del 2000 in relazione all’omissione del versamento dell’iva per un importo superiore all’attuale soglia di punibilità di 250.000 euro. Il medesimo imputato era già stato destinatario, per la medesima omissione, di una sanzione amministrativa, divenuta definitiva, di importo pari al 30 per cento della somma evasa, ai sensi dell’art. 13, comma 1, d.lgs. n. 471 del 1997.
Secondo il rimettente, la duplicazione del procedimento sanzionatorio e delle relative sanzioni per lo stesso fatto – il mancato versamento del medesimo debito IVA – determinerebbe la violazione del ne bis in idem, così come declinato dalla Corte di giustizia dell’U.E. dalla sentenza 20 marzo 2018, in causa C-524/15, Menci, pronunciata in risposta a una domanda pregiudiziale formulata dallo stesso giudice a quo.
Ad avviso del giudice a quo, non sarebbero soddisfatte nella specie le condizioni fissate da quella da quella sentenza possa legittimarsi un doppio binario sanzionatorio per un medesimo fatto: condizioni indicate dal rimettente nella complementarietà di scopi tra procedimenti e relative sanzioni, nella diversità di taluni aspetti della condotta, nonché nella sussistenza di una normativa di coordinamento atta a limitare l’onere supplementare derivante dal cumulo di procedimenti e di norme idonee a garantire la proporzionalità della complessiva risposta sanzionatoria rispetto alla gravità del reato.
Il diritto vigente non consentirebbe, tuttavia, di evitare tale violazione, non potendosi applicare nella specie l’art. 649 c.p.p., il cui tenore letterale sarebbe inequivoco nell’ancorare la pronuncia di una sentenza di non doversi procedere a una previa sentenza irrevocabile sullo stesso fatto, pronunciata da altro giudice penale. Di qui la richiesta a questa Corte di estendere, attraverso una pronuncia additiva, l’ambito applicativo dell’art. 649 c.p.p. all’ipotesi, come quella in esame, in cui l’imputato sia già stato punito per lo stesso fatto in via amministrativa con una sanzione amministrativa di carattere “punitivo”, come quella prevista dall’art. 13, comma 1, d.lgs. n. 471 del 1997.
Il giudice a quo ritiene, inoltre, che l’inapplicabilità dell’art. 649 c.p.p. alle sanzioni di carattere “punitivo” secondo i “criteri Engel” – con conseguente possibilità di avviare o proseguire un procedimento penale per l’omesso versamento dell’IVA anche dopo l’irrogazione di una sanzione amministrativa ormai definitiva per il medesimo omesso versamento – determinerebbe altresì «un’ingiustificata disparità di trattamento, specialmente se rapportata al quadro sanzionatorio delle fattispecie originarie del d.lgs. n. 74/2000», e comunque solleverebbe «un problema di ragionevolezza intrinseca dell’ordinamento», in violazione dell’art. 3 Cost. Il cosiddetto doppio binario sanzionatorio in materia tributaria si giustificherebbe, infatti, in relazione alle sole fattispecie delittuose di cui agli artt. 2, 3, 4, 5, 8, 10 e 11 del d.gs. n. 74 del 2000, che puniscono condotte decettive e tutelano la funzione accertativa dell’Amministrazione finanziaria, mentre risulterebbe ingiustificato in rapporto alle fattispecie di cui agli artt. 10-bis e 10-ter del medesimo decreto legislativo, che tutelano in via diretta l’interesse dell’Amministrazione finanziaria al pagamento dei tributi, ossia il medesimo bene giuridico protetto dalla sanzione amministrativa di cui all’art. 13, comma 1, del d.lgs. n. 471 del 1997.
La decisione della Corte
La questione è stata dichiarata inammissibile.
Cominciando dalla censura principale, incentrata sull’asserita violazione dell’art. 649 c.p.p. con l’art. 117, comma 1, Cost. in relazione all’art. 4 Prot. n. 7 alla CEDU, la Corte ha rilevato un vizio di omessa motivazione dell’ordinanza di rimessione, non spiegando perché, nel caso di specie, non sarebbero soddisfatte le condizioni di ammissibilità di un “doppio binario” procedimentale e sanzionatorio per l’omesso versamento di IVA, come individuate dalla giurisprudenza europea che la Corte ha puntualmente indicato.
Invero, secondo la recente giurisprudenza europea (tanto della Corte EDU quanto della Corte di giustizia dell’U.E.), la mera sottoposizione di un imputato a un processo penale per il medesimo fatto per il quale egli sia già stato definitivamente sanzionato in via amministrativa non integra, sempre e necessariamente, una violazione del ne bis in idem.
E difatti nella sentenza A e B contro Norvegia la Grande Camera della Corte EDU ha ritenuto che debba essere esclusa la violazione del diritto sancito dall’art. 4 Prot. n. 7 CEDU allorché tra i due procedimenti – amministrativo e penale – che sanzionano il medesimo fatto sussista un legame materiale e temporale sufficientemente stretto; legame che deve essere ravvisato, in particolare:
a) quando le due sanzioni perseguano scopi diversi e complementari, connessi ad aspetti diversi della medesima condotta;
b) quando la duplicazione dei procedimenti sia prevedibile per l’interessato;
c) quando esista una coordinazione, specie sul piano probatorio, tra i due procedimenti;
d) quando il risultato sanzionatorio complessivo, risultante dal cumulo della sanzione amministrativa e della pena, non risulti eccessivamente afflittivo per l’interessato, in rapporto alla gravità dell’illecito.

Al contempo, come già affermato dalla sentenza n. 43 del 2018 – «si dovrà valutare», ai fini della verifica della possibile lesione dell’art 4 Prot. n. 7 CEDU, «se le sanzioni, pur convenzionalmente penali, appartengano o no al nocciolo duro del diritto penale, perché in caso affermativo si sarà più severi nello scrutinare la sussistenza del legame e più riluttanti a riconoscerlo in concreto».
A conclusioni sostanzialmente coincidenti, ha rilevato la Corte costituzionale, è pervenuta la Grande sezione della Corte di giustizia, nelle tre sentenze coeve del 20 marzo 2018 (rispettivamente in causa C-537/16, Garlsson Real Estate SA e altri, in cause C-596/16 e C-597/16, Di Puma e CONSOB, e in causa C-524/15, Menci, quest’ultima emessa proprio in seguito a rinvio pregiudiziale proposto dal giudice a quo).
A parere del supremo giudice dell’Unione, infatti, la violazione del ne bis in idem sancito dall’art. 50 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) non si verifica alle seguenti condizioni:
a) allorché le due sanzioni perseguano scopi differenti e complementari, sempre che
b) il sistema normativo garantisca una coordinazione tra i due procedimenti sì da evitare eccessivi oneri per l’interessato, e
c) assicuri comunque che il complessivo risultato sanzionatorio non risulti sproporzionato rispetto alla gravità della violazione.

Alla luce dei criteri appena rammentati, la stessa Corte di giustizia, nella sentenza Menci, conclude nel senso che la disciplina italiana in materia di omesso versamento di IVA, riservando la perseguibilità in sede penale alle sole violazioni superiori a determinate soglie di imposta evasa e attribuendo tra l’altro rilevanza, in sede penale, al volontario pagamento del debito tributario e delle sanzioni amministrative, appare conformata in modo tale da «garantire» – sia pure «con riserva di verifica da parte del giudice del rinvio» – che «il cumulo di procedimenti e di sanzioni che essa autorizza non eccede quanto è strettamente necessario ai fini della realizzazione dell’obiettivo» di assicurare l’integrale riscossione dell’IVA (paragrafo 57). Di conseguenza, secondo la Corte di giustizia il complessivo regime sanzionatorio e procedimentale previsto dal legislatore italiano in materia di omesso versamento di IVA non si pone in contrasto, in linea generale, con il ne bis in idem riconosciuto dalla Carta; tuttavia resta affidato al giudice nazionale il compito di verificare che, nel caso concreto, «l’onere risultante concretamente per l’interessato dall’applicazione della normativa nazionale in discussione nel procedimento principale e dal cumulo dei procedimenti e delle sanzioni che la medesima autorizza non sia eccessivo rispetto alla gravità del reato commesso» (sentenza Menci, paragrafo 64).
Così ricapitolati gli approdi della giurisprudenza sovranazionale, la Corte ha messo in luce la diversità del caso sottoposto al suo scrutinio, perché, secondo il remittente, vi sarebbe una radicale contrarietà al ne bis in idem dell’attuale sistema di “doppio binario” sanzionatorio e procedimentale, così come previsto in astratto dalla legislazione italiana in materia di omesso versamento di IVA; con la conseguenza che tale principio sarebbe sempre violato allorché il contribuente, già definitivamente sanzionato in via amministrativa, per la medesima violazione sia anche sottoposto a un procedimento penale.
E tuttavia, ha evidenziato la Corte, “una simile conclusione – contraria, vale la pena di ribadire, a quella raggiunta dalla sentenza Menci, sia pure «con riserva di verifica da parte del giudice del rinvio» – avrebbe però meritato più puntuale dimostrazione da parte del giudice a quo, alla luce dei criteri enunciati dalle due Corti europee nelle sentenze appena rammentate”.
La Corte ha quindi elencato le plurime carenze argomentative dell’ordinanza di rimessione.
In riferimento alla finalità delle due sanzioni, il giudice a quo non spiega le ragioni per cui dovrebbe escludersi che la minaccia di una sanzione detentiva per l’evasione di importi IVA annui superiori – oggi – a 250.000 euro, in aggiunta a una sanzione amministrativa pecuniaria calcolata in misura percentuale rispetto all’importo evaso, “possa perseguire i legittimi scopi di rafforzare l’effetto deterrente spiegato dalla mera previsione di quest’ultima, di esprimere la ferma riprovazione dell’ordinamento a fronte di condotte gravemente pregiudizievoli per gli interessi finanziari nazionali ed europei, nonché di assicurare ex post l’effettiva riscossione degli importi evasi da parte dell’amministrazione grazie ai meccanismi premiali connessi all’integrale saldo del debito tributario”.
L’ordinanza, inoltre, non si confronta con il requisito – enunciato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza A e B contro Norvegia – della necessaria prevedibilità per l’interessato della duplicazione dei procedimenti e delle sanzioni, prevedibilità che, ad avviso della Corte, è in re ipsa, dal momento che la legislazione italiana stabilisce chiaramente la sanzionabilità in via amministrativa della violazione ai sensi dell’art. 13, comma 1, del d.lgs. n. 471 del 1997 da un lato, e in via penale ai sensi dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 74 del 2000, limitatamente – nella formulazione attuale – agli omessi versamenti di importo superiore ai 250.000 euro, dall’altro.
Il giudice a quo, inoltre, pur affermando l’eccessiva onerosità, per l’imputato del cumulo tra procedimento amministrativo e procedimento penale – ciò che astrattamente determinerebbe la violazione del ne bis in idem –, non fornisce alcuna plausibile motivazione dell’assunto e, soprattutto, omette di considerare che, secondo la giurisprudenza delle due Corti europee, l’eccessiva onerosità per l’interessato dei procedimenti amministrativo e penale deve essere esclusa allorché essi risultino avvinti da una stretta connessione sostanziale e temporale.
Oltre a ciò, il rimettente non considera nemmeno le numerose disposizioni normative, ulteriori rispetto agli artt. 19, 20 e 21 del d.lgs. n. 74 del 2000, che regolano i rapporti tra procedimento amministrativo e procedimento penale in materia tributaria, tra cui gli ulteriori istituti premiali introdotti dal d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158, quali la concessione di termine per adempiere al pagamento del residuo debito tributario rateizzato (art. 13, comma 3, del d.lgs. n. 74 del 2000) o gli effetti dell’adempimento del debito erariale sulla confisca (art. 12-bis del medesimo testo normativo), e di saggiarne la portata, in termini di introduzione di elementi di raccordo tra adempimento del debito tributario da un lato, e svolgimento ed esito del processo penale, dall’altro lato.
Ancora, il giudice a quo non prende nemmeno posizione in ordine alle disposizioni, estranee al corpus normativo del d.lgs. n. 74 del 2000, che prevedono obblighi di comunicazione degli illeciti tributari da parte della Guardia di Finanza all’autorità giudiziaria (art. 331 c.p.p.) e, specularmente, da parte dell’autorità giudiziaria alla Guardia di Finanza (art. 36 d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600) e all’Agenzia delle entrate (art. 14, comma 4, l.24 dicembre 1993, n. 537), che mirano ad assicurare una sostanziale contestualità dell’avvio dell’accertamento tributario e di quello penale.
Non vengono, poi, considerate né le disposizioni che consentono forme di circolazione del materiale probatorio raccolto dall’indagine penale all’accertamento tributario e viceversa (art. 63, comma 1, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 63, art. 33, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973 e, specularmente, art. 220 disp. att. c.p.p.), né la giurisprudenza relativa all’utilizzabilità del materiale istruttorio raccolto in ciascun procedimento, quale elemento di prova e fonte di convincimento da parte del giudice che istruisce l’altro procedimento, essendo pacifica la possibilità che gli elementi probatori acquisiti nel processo tributario facciano ingresso nel processo penale, ex art. 234 o 238-bis c.p.p., quali prove valutabili ai sensi degli artt. 187 e 192 c.p.p.
Ancora, il giudice a quo omette di spiegare per quale motivo l’irrogazione di una pena detentiva risulterebbe sproporzionata rispetto alla gravità del reato, se combinata con la sanzione amministrativa già applicata (pari in concreto al 30 per cento dell’imposta evasa), con conseguente violazione del ne bis in idem nei confronti dell’imputato, così come nessun argomento spende sulla questione della riconducibilità o meno delle sanzioni penali previste in materia di evasione di IVA al “nocciolo duro” del diritto penale, rispetto al quale – secondo la sentenza A e B contro Norvegia della Corte europea dei diritti dell’uomo – più rigoroso dovrebbe essere il vaglio di compatibilità del “doppio binario” sanzionatorio con la garanzia convenzionale del ne bis in idem.
A fronte di queste carenze argomentative, la questione è stata dichiarata inammissibile.
Non miglior sorte è toccata alle censure formulate con riferimento all’art. 3 Cost., essendo strettamente collegate a quelle prospettate in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 4 Prot. n. 7 alla CEDU e all’art. 50 CDFUE.
Nella prospettiva del rimettente, l’art. 649 c.p.p. darebbe infatti luogo a una disparità di trattamento, nonché a un «problema di ragionevolezza intrinseca dell’ordinamento sostanzialmente per le medesime ragioni per le quali dovrebbe ravvisarsi l’incompatibilità tra la disposizione censurata e il ne bis in idem, alla luce delle indicazioni fornite dalla sentenza Menci.
La carenza di motivazione su tale ultima censura, non può che riverberarsi sulle censure ex art. 3 Cost., determinandone parimenti l’inammissibilità.
Esito del ricorso:
dichiarazione di inammissibilità
Riferimenti normativi:
art. 649 c.p.p.
Corte Costituzionale, sentenza 24 ottobre 2019, n. 222

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