Reati edilizi: il permesso di costruire serve solo per gli interventi di ristrutturazione “pesante”

Reati edilizi: il permesso di costruire serve solo per gli interventi di ristrutturazione “pesante”

Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso la sentenza con cui la Corte d’appello aveva confermato quella del tribunale, che aveva condannato due soggetti per aver realizzato un intervento di ristrutturazione ediliziain assenza di permesso di costruire, essendo stata presentata soltanto una s.c.i.a. per lavori di risanamento conservativo, la Corte di Cassazione (sentenza 4 aprile 2019, n. 14725) – nell’accogliere la tesi difensiva, secondo cui i giudici di merito avevano erroneamente qualificato l’intervento come ristrutturazione ediliziasoggetta al permesso di costruire, piuttosto che come risanamento conservativo soggetto a s.c.i.a. – ha affermato che la modifica dell’art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 380 del 2001, operata con l’art. 17, comma 1, lett. d), d.l. 12 settembre 2014, n. 133, conv., con modiff., nella I. 11 novembre 2014, n. 164, che ha escluso dagli interventi di ristrutturazione edilizia subordinati a permesso di costruire quelli che comportino aumento di unità immobiliari o di superfici utili, osta alla riconduzione di tali ipotesi al reato di costruzione “sine titulo” di cui all’art. 44, comma l, lett. b), d.P.R. 380 del 2001 e deve trovare applicazione retroattiva, ai sensi dell’art. 2, quarto comma, c.p., quale norma extrapenalepiù favorevole integratrice del precetto.

Prima di soffermarci sulla, interessante, pronuncia resa dalla Suprema Corte, è opportuno qui ricordare che rispetto alla definizione di ristrutturazione edilizia data dall’art. 3, comma 1, lett. d) del TU edilizia (d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380), il successivo art. 10, comma 1, lett. c), nel testo oggi vigente, assoggetta al regime del permesso di costruire – salve le ipotesi della modifica della destinazione d’uso nei centri storici o delle modificazioni della sagoma di immobili vincolati – soltanto quegli interventi che «portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti». Si tratta degli interventi definiti di ristrutturazione edilizia c.d. “pesante” che, a differenza delle residuali ipotesi rientranti nella categoria – per la cui realizzazione è sufficiente la s.c.i.a. in forza della residuale previsione di cui all’art. 22, comma 1, lett. c), d.P.R. 380 del 2001 – sono assoggettati al previo rilascio del permesso di costruire con conseguente realizzazione della fattispecie penale contestata nel caso di assenza del titolo. Se, per contro, si tratta di ristrutturazione edilizia “leggera” per cui è sufficiente la s.c.i.a., quand’anche si tratti di lavori qualificabili in termini di risanamento conservativo, il fatto non integra gli estremi del reato contestato.

L’originario testo dell’art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 380 del 2001, qualificava come ristrutturazioni edilizie pesanti anche gli interventi che comportino «aumento delle unità immobiliari». In quella parte, la disposizione è stata tuttavia modificata dall’art. 17, comma 1, lett. d), d.1. 12 settembre 2014, n. 133 (recante, Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive), conv., con modiff., in I. 11 novembre 2014, n. 164, che, interpolando la norma definitoria della ristrutturazione edilizia c.d. “pesante”, ha eliminato il riferimento allo “aumento delle unità immobiliari” (oltre a quello, parimenti contenuto nell’originaria disposizione, “delle superfici utili”). Il solo aumento delle unità immobiliari – che, peraltro, di regola già rileva per far ritenere che l’organismo che subisca un tale intervento sia “in tutto o in parte diverso dal precedente” – non determina più, dunque, la necessità di munirsi del previo permesso di costruire, essendo al proposito necessario (al di là delle richiamate ipotesi di lavori nei centri storici o su immobili vincolati) che vi sia una modifica della volumetria complessiva o dei prospetti.

Tanto premesso, nel caso in esame la Corte d’appello aveva confermato la sentenza di condanna pronunciata nei confronti di due soggetti per il reato di cui all’art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (per aver realizzato un intervento di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire, essendo stata presentata soltanto una s.c.i.a. per lavori di risanamento conservativo). Ricorrendo in Cassazione, gli imputati sostenevano che la Corte d’appello aveva erroneamente qualificato l’intervento come ristrutturazione edilizia soggetta al permesso di costruire, piuttosto che come risanamento conservativo soggetto a s.c.i.a.

La Cassazione, nell’accogliere la tesi difensiva, ha affermato il principio di cui in massima, in particolare, rilevando come la sentenza dei giudici di merito aveva ritenuto sussistente tale contravvenzione, che addebitava agli imputati di aver eseguito in assenza di permesso di costruire lavori di ristrutturazione di un immobile «comportanti la suddivisione in quattro unità immobiliari, la demolizione dei solai del sottotetto finalizzata alla realizzazione di nuovi volumi abitabili nel vano sottotetto, lavori non rientranti in un intervento di risanamento conservativo, in relazione al quale era stata presentata la S.C.I.A.». Senza considerare il profilo dell’esecuzione di nuovi volumi abitabili – ritenuto dal giudice di primo grado e contestato dagli imputati (in particolare, rilevando come la s.c.i.a. presentata per l’esecuzione dei lavori non fosse sufficiente sul rilievo che la trasformazione del bene da una a quattro unità immobiliari non potesse essere ricondotta alla riduttiva nozione del risanamento conservativo ma costituisse ristrutturazione edilizia, con conseguente necessità di richiedere il permesso di costruire). La Cassazione ha condiviso che la conclusione fosse certamente errata in diritto, poiché, pur potendosi convenire sulla qualificazione giuridica dell’intervento in termini di ristrutturazione edilizia piuttosto che di risanamento conservativo – tenendo conto che si era trattato di un insieme sistematico di opere che aveva indubbiamente portato ad un organismo edilizio diverso dal precedente, sia per la trasformazione di un appartamento in quattro distinte unità abitative, sia per la modifica di elementi costitutivi (quali il ribassamento dei solai) e l’inserimento di nuovi impianti (funzionali al godimento delle plurime unità realizzate) – non per ciò solo era necessario il permesso cii costruire. La Corte d’appello, in altri termini, era probabilmente incorsa in errore per aver fatto applicazione dell’originario testo dell’art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 380 del 2001, che, come detto, qualificava come ristrutturazioni edilizie pesanti anche gli interventi sopra descritti che comportavano «aumento delle unità immobiliari», sicché la motivazione della sentenza impugnata si era limitata a tale rilievo per ritenere la sussistenza del reato senza ulteriormente valutare se vi fosse stato aumento di volumetria, come invece aveva fatto il giudice di primo grado, pur con giudizio fatto oggetto di specifiche censure che il giudice d’appello non aveva esaminato. L’intervenuta modifica della lett. c) predetta (v. supra) esclude, oggi, che per gli interventi di ristrutturazione edilizia “leggeri” vi sia necessità di un p.d.c.

Occorre, ancora, rilevare, per la Cassazione, come la citata “novella” che ha modificato l’art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 380 del 2001 – pur intervenuta successivamente alla consumazione del reato – sia retroattivamente applicabile ai sensi dell’art. 2, quarto comma, c.p. Nel sanzionare penalmente l’esecuzione di lavori in assenza del permesso di costruire, di fatti, la norma incriminatrice di cui all’art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 380 del 2001 richiama implicitamente proprio l’art. 10, comma 1, del testo unico (rubricato interventi subordinati a permesso di costruire), che vale dunque ad integrare il precetto penale nella sua essenziale struttura, individuando le opere che necessitano di tale titolo abilitativo. Va pertanto applicato il principio secondo cui, in tema di successione di leggi penali, la modificazione della norma extrapenale richiamata dalla disposizione incriminatrice esclude la punibilità del fatto precedentemente commesso se tale norma è integratrice di quella penale (Cass. pen. sez. U, n. 2451 del 27/09/2007, dep. 2008, Magera, CED Cass. 238197; Cass. pen. sez. III, n. 15481 del 11/01/2011, G. e a., CED Cass. 250119; Cass. pen. sez. III, n. 28681 del 27/01/2017, P., CED Cass. 270335). Nel caso di specie, di fatti, non v’è dubbio che il citato art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 380 del 2001 integri il precetto penale di cui al successivo art. 44, comma 1, lett. b), incidendo sulla struttura essenziale del reato e quindi sulla fattispecie tipica, sì che il principio di retroattività della norma favorevole, affermato dall’art. 2, comma quarto, c.p., si applica anche in caso di successione nel tempo di norme extrapenali integratrici aventi tali caratteristiche (Cass. pen. sez. V, n. 11905 del 16/11/2015, dep. 2016, B. e aa., CED Cass. 266474; Cass. pen. sez. II, n. 46669 del 23/11/2011, D,M. e aa., CED Cass. 252194).

Da qui, dunque, l’accoglimento del ricorso.

Riferimenti normativi:

Art. 10, lett c) d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380

Art. 3, lett. d) d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380

Art. 17, lett. d) d.l. 12 settembre 2014, n. 133

  1. 11 novembre 2014, n. 164

Cassazione penale, sezione III, sentenza 4 aprile 2019, n. 14725

 

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