Secondo un consolidato orientamento della Cassazione Penale, “il datore di lavoro deve vigilare per impedire l’instaurazione di prassi “contra legem” foriere di pericoli per i lavoratori”.
Ciò sulla base del presupposto per cui “le prassi diffuse in un’impresa o anche in un determinato ambito imprenditoriale non possono infatti superare le prescrizioni legali, in quanto non hanno natura normativa e, seppure assurgessero a vere e proprie consuetudini, resterebbero norme di rango inferiore” ( Cassazione Penale, Sez.IV, 21 giugno 2024 n.24565).
Affinché il datore di lavoro possa concretamente attuare tale vigilanza finalizzata alla rimozione delle prassi pericolose, egli “deve controllare che il preposto, nell’esercizio dei compiti di vigilanza affidatigli, si attenga alle disposizioni di legge e a quelle, eventualmente in aggiunta, impartitegli.”
Da ciò “consegue che, qualora nell’esercizio dell’attività lavorativa si instauri, con il consenso del preposto, una prassi contra legem, foriera di pericoli per gli addetti, in caso di infortunio del dipendente, la condotta del datore di lavoro che sia venuto meno ai doveri di formazione e informazione del lavoratore e che abbia omesso ogni forma di sorveglianza circa la pericolosa prassi operativa instauratasi, integra il reato di omicidio colposo o di lesioni colpose aggravato dalla violazione delle norme antinfortunistiche” ( Cassazione Penale, Sez.IV, 17 gennaio 2020 n.1683).
In tale ottica, secondo la giurisprudenza, “l’obbligo del datore di lavoro di vigilare sull’esatta osservanza, da parte dei lavoratori, delle prescrizioni volte alla tutela della loro sicurezza, può ritenersi assolto soltanto in caso di predisposizione e attuazione di un sistema di controllo effettivo, adeguato al caso concreto, che tenga conto delle prassi elusive seguite dai lavoratori delle quali il datore di lavoro sia a conoscenza”.
E’ importante sottolineare, infatti, che – come è stato ribadito dalla Suprema Corte non più tardi dell’anno scorso – “in presenza di una prassi dei lavoratori elusiva delle prescrizioni volte alla tutela della sicurezza, non è ravvisabile la colpa del datore di lavoro, sotto il profilo dell’esigibilità del comportamento dovuto omesso, ove non vi sia prova della sua conoscenza, o della sua colpevole ignoranza, di tale prassi (Sez.4, n.32507 del 16/04/2019, Romano, Rv.276797-02)” ( Cassazione Penale, Sez.IV, 26 marzo 2024 n.12326).
In tal senso, “è noto che, in tema di prevenzione di infortuni sul lavoro, il datore di lavoro deve vigilare per impedire l’instaurazione di prassi contra legem foriere di pericoli per i lavoratori (per tutte vds. Sez.4, Sentenza n.10123 del 15/01/2020, Chironna, Rv.278608) e che il formarsi di tali prassi, conosciute o conoscibili da parte dello stesso datore di lavoro, determina la responsabilità dello stesso per gli incidenti eventualmente occorsi ai lavoratori in dipendenza di esse” ( Cassazione Penale, Sez.IV, 21 settembre 2022 n.34968).
A fronte di questo quadro, risulta evidente che l’obbligo del preposto di segnalare le condizioni di pericolo di cui venga a conoscenza sulla base della formazione ricevuta – accanto agli altri strumenti gestionali che il datore di lavoro riterrà idonei ai fini della vigilanza – è la “misura” identificata dal legislatore per far sì che il datore di lavoro stesso possa acquisire conoscenza di eventuali prassi disapplicative attuate nell’ambiente di lavoro (per un approfondimento su questo tema, si vedano i precedenti articoli “ Il preposto e la segnalazione tempestiva delle condizioni di pericolo”, pubblicato su Puntosicuro del 30 maggio 2025 n.5860 e “ Il preposto non deve uniformarsi alle scelte imprudenti dei superiori”, pubblicato su Puntosicuro del 27 marzo 2025 n.5818).
Inutile dire che, a fronte di una prassi pericolosa riscontrata sul luogo di lavoro, secondo il sistema delineato dal D.Lgs.81/08, il preposto non potrà limitarsi a segnalare la stessa “tempestivamente al datore di lavoro o al dirigente” ma dovrà, altresì, intervenire nei termini di legge per rimuoverla, in attuazione del suo primario obbligo di “sovrintendere e vigilare sulla osservanza da parte dei singoli lavoratori dei loro obblighi di legge, nonché delle disposizioni aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro […]” (art.19 c.1 lett.a) D.Lgs.81/08).
Tutto ciò premesso, prendiamo a questo punto in esame una interessante sentenza emanata il mese scorso dalla Suprema Corte, la quale, applicando i principi giuridici che abbiamo ricostruito sopra, ha condannato due preposti per il reato di omicidio colposo per non aver vigilato e non aver segnalato al datore di lavoro una pericolosa prassi attuata nell’ambiente di lavoro nonostante fosse vietata nel Documento di Valutazione dei Rischi aziendale.
Con Cassazione Penale, Sez.IV, 4 agosto 2025 n.28427, infatti, circa un mese fa la Corte ha confermato la condanna di A., vicecapo officina, e di B., quale responsabile del settore manutenzioni-approvvigionamento, nelle qualità di preposti di “A.M.” S.p.a., per il reato di omicidio colposo in danno del lavoratore D., dipendente della stessa società, il quale svolgeva la mansione di meccanico addetto alla manutenzione dell’officina per la riparazione dei bus.
Tale reato è stato “accertato come commesso in cooperazione colposa (ex artt.113 e 589 cod. pen.) anche con E., altro lavoratore alle dipendenze di “A.M.” e addetto al piazzale adibito al deposito dei bus.”
La dinamica dell’infortunio (verificatosi nel settembre del 2016) è la seguente: “il lavoratore è deceduto a seguito di schiacciamento tra il carrello elevatore manovrato da E., privo di relative patente e abilitazione, e il bus guasto presente in officina, dopo essersi posta la persona offesa [il lavoratore infortunatosi D., n.d.r.] tra i due mezzi per verificare il posizionamento delle forche del carrello rispetto alla traversa anteriore del pullman.”
L’evento è accaduto “durante l’attività intrapresa dalla persona offesa per spostare il bus all’interno dell’officina aziendale spingendolo mediante l’utilizzo del detto mezzo inidoneo [carrello elevatore, n.d.r.] e con procedura contraria a quella contemplata nel Documento di valutazione rischi (sotto la voce: “Segnalazione Guasti Autobus”).”
Sotto questo profilo, la sentenza specifica che “il D.V.R., redatto con la collaborazione dell’imputato B., prevedeva difatti, sin dal 2015, il coinvolgimento di due lavoratori ma l’utilizzo di un carro attrezzi e, a decorrere dal luglio 2016, esplicitamente vietava di eseguire l’operazione di spostamento di veicoli guasti all’interno di aree aziendali mediante spinta eseguita tramite le forche del carrello elevatore.”
Contrariamente a tale previsione, “i giudici d’appello hanno accertato il sinistro come verificatosi durante l’attività intrapresa dalla persona offesa, nell’esercizio delle proprie mansioni, per spostare il bus guasto presente all’interno dell’officina aziendale, spingendolo mediante l’utilizzo del carrello elevatore, mezzo inidoneo, e quindi con procedura contraria all’unica prevista dal D.V.R., contemplante l’utilizzo del solo carro attrezzi ed esplicitamente escludente l’uso del citato carrello.”
Dunque la prassi che è stata tollerata dagli imputati era, al momento dell’infortunio, vietata da due mesi (intercorsi tra luglio e settembre) dal Documento di Valutazione dei Rischi aziendale.
Per quanto riguarda la situazione di contesto caratterizzante l’infortunio, la Corte d’Appello ha ritenuto “accertata la presenza in azienda al momento dei fatti di due addetti al movimento e traffico (F. e G.) inseriti nell’organigramma aziendale all’interno dell’ufficio “movimento e deposito” ma nell’ambito dell’“area esercizio”, cioè all’interno non dell’officina bensì del piazzale di sosta e deposito dei bus, quindi gestori non dell’area di rischio inerente alle attività di officina.”
Rispetto agli imputati A. e B., invece, “quali preposti rispetto alla specifica area aziendale”, è stata accertata “la “causalità della colpa” in relazione a specifiche violazioni dell’art.19 D.Lgs.n.81 del 2008”.
Tutto ciò “fermo restando però il già accertato concorso nella causazione dell’evento anche della condotta del lavoratore E., non appellante, e di quella dell’infortunato, non considerata c.d. “abnorme”” dal momento che “l’evento è stato accertato come verificatosi nell’esercizio delle mansioni a cui era ordinariamente adibito il lavoratore, espletate seguendo una prassi vietata ma assolutamente tollerata dagli stessi preposti.”
Dall’altra parte, “sono stati invece esplicitamente esclusi profili di colpa in termini di omessa formazione e informazione dei lavoratori in quanto non imputati ai due attuali ricorrenti”; ciò in quanto – come noto – l’obbligo di garantire che il lavoratore riceva la formazione e le informazioni necessarie grava sul datore di lavoro o dirigente e non sui preposti (art.18 c.1 lett.l) in comb. disp. artt.36 e 37 D.Lgs.81/08).
Tra i profili di colpa che sono stati specificamente addebitati ad A. e B., compare anzitutto l’“aver omesso di sovraintendere e vigilare sul rispetto da parte dei lavoratori della corretta procedura prevista (dal D.V.R.) per lo spostamento dei bus all’interno dell’officina, contemplante il solo utilizzo del carro attrezzi e comunque escludente la spinta mediante carrello elevatore.”
E “ciò, peraltro, nonostante la consapevolezza degli imputati circa la pacifica diffusa prassi pericolosa e contraria alle dette previsioni del D.V.R. coinvolgente l’uso del carrello elevatore per spostare i bus in avaria, segnatamente trainandoli, dagli stessi preposti conosciuta e non partecipata al datore di lavoro.”
Guardando alle singole previsioni contenute nell’art.19 del D.Lgs.81/08, poi, ai due preposti ricorrenti è stata imputata, oltre alla violazione dell’obbligo di sovrintendere e vigilare di cui alla lettera a), anche la mancata segnalazione ai superiori delle situazioni di pericolo di cui alla lettera f).
Infatti, “oltre all’omesso controllo del rispetto della corretta procedura prevista dal D.V.R., finalizzata allo spostamento dei bus all’interno dell’officina, è stata addebitata ai due preposti la mancata comunicazione al datore di lavoro della pacifica diffusa prassi pericolosa e contraria alle dette previsioni del D.V.R., da loro conosciuta, coinvolgente l’uso del carrello elevatore per spostare i bus in avaria.”
Segnalo qui, tra i molti, un interessante precedente giurisprudenziale rispetto alla recente sentenza che abbiamo esaminato.
Con Cassazione Penale, Sez.IV, 17 gennaio 2020 n.1683, pochi anni fa la Corte ha confermato la condanna del datore di lavoro di una società di costruzioni, del direttore tecnico di cantiere e del capocantiere (preposto) di tale società per il reato di lesioni gravi in danno del dipendente T.C., “il quale, mentre si trovava su un camion dell’impresa di appartenenza, subiva lesioni gravi cagionate per effetto dello scivolamento di alcuni pannelloni di metallo situati nel cassone del mezzo e che stava movimentando con la gru del veicolo, azionato da A., autista, altro dipendente, per essere scaricati a terra.”
In particolare, “il lavoratore era schiacciato contro la sponda posteriore dell’automezzo dalle casseforme che, durante le operazioni di sollevamento effettuate dal collega A., scivolavano a causa dell’inidonea modalità di imbracatura mediante l’uso di fasce in tessuto e non tramite ganci o brache di sollevamento, come previsto dal manuale di istruzione ed uso della ditta P.”.
Dalle testimonianze era emerso che “le fasce erano state adoperate sistematicamente, senza che il capocantiere o altri ne sconsigliasse l’uso o controllasse lo stato di usura.”
Inoltre, era stato accertato che “le fasce consentivano di svolgere il lavoro più velocemente e per questo costituivano una dotazione del cantiere, già impiegata in precedenti occasioni.”
Al preposto B.G. è stata contestata la “violazione dell’art.19, comma 1, lett.a), D.Lgs.n.81 cit., per avere omesso di sovrintendere e vigilare sull’osservanza da parte dei lavoratori del cantiere degli obblighi di legge e delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza previste nel piano operativo di sicurezza e, in particolare, perché non disponeva e non esigeva che le operazioni di movimentazione delle casseforme fossero effettuate secondo le indicazioni del manuale”.
Il lavoratore infortunato “aveva riferito in dibattimento quanto segue: […] non era mai stato ammonito per l’uso delle fasce; quel giorno, aveva usato le fasce, che consentivano un’operazione più veloce, perché l’autista aveva fretta, dovendo portare del materiale in un altro cantiere.”
Inoltre, “l’affermazione del T.C. di essere stato più volte redarguito per la scelta di usare le fasce trovava smentita nella verifica dei provvedimenti disciplinari adottati dalla ditta, tra i quali non era ricompresa la sanzione della sospensione dal lavoro, che egli avrebbe subito per l’inosservanza.”
Tra l’altro, “dal rilevante costo delle fasce di tessuto era desumibile che il loro impiego non poteva dipendere da una mera iniziativa dei dipendenti.”
Nel rigettare il ricorso, la Cassazione ha sottolineato come sia risultata provata dalla Corte d’Appello “l’esistenza di una prassi contra legem osservata per le operazioni di sollevamento e di carico delle casseforme.”
A fronte di tale quadro, “si è quindi dimostrato che il preposto, nell’esercizio dei compiti di vigilanza affidatigli, non si era attenuto alle disposizioni di legge, tollerando una prassi particolarmente pericolosa per gli addetti e suggerita dalla società, non predisponendo le opportune precauzioni per scongiurarne l’utilizzo nonché non sorvegliando l’operato dei dipendenti.”
Anna Guardavilla
Dottore in Giurisprudenza specializzata nelle tematiche normative e giurisprudenziali relative alla salute e sicurezza sul lavoro
fonte (puntosicuro.it)
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