Vizi nell’appalto, quando è legittimo il rifiuto del committente di pagare il prezzo pattuito?
I contratti per l’esecuzione di lavori edili sono riconducibili, come noto, allo schema dell’appalto privato. Ciò determina l’applicazione della disciplina normativa contenuta nel codice civile per questo tipo contrattuale.
Tali disposizioni sono molto dettagliate e regolano in maniera puntuale le azioni che il committente può esperire nei confronti dell’appaltatore [artt. 1667-1668-1669 c.c.]. Più nello specifico, da una lettura di queste norme, si desume un sistema che impone al committente di non accettare l’opera viziata [salvo i casi in cui i vizi siano stati sottaciuti con malafede dall’appaltatore], di denunciare entro 60 giorni dalla scoperta il vizio e di proporre azione contro l’appaltatore entro 2 anni dalla consegna. A questo sistema – disegnato dal legislatore a tutela anche degli interessi dell’appaltatore – si somma la responsabilità di quest’ultimo nel caso di rovina dell’opera per un periodo di tempo pari a dieci anni dal suo compimento.
Il quadro, fin qui piuttosto chiaro, si complica qualora il committente non rispetti i limiti previsti dal legislatore da un punto di vista temporale per la denuncia dei vizi o della rovina e per la conseguente azione rifutandosi, tuttavia, di pagare il corrispettivo.
Il problema, da un punto di vista pratico, non è di poco conto e per la sua soluzione entra in gioco l’applicazione di istituti di carattere generale del diritto dei contratti.
Il riferimento è a quanto disposto dall’art. 1460 c.c.; la disposizione normativa in parola – come noto – disciplina un importante strumento di autotutela, vale a dire l’eccezione di inadempimento. Nello specifico, a fronte della scoperta di vizi non tempestivamente denunciati si pone il problema di chiarire se il committente possa, in virtù di detta norma, legittimamente rifiutarsi di effettuare il pagamento.
Sul punto è intervenuta la Corte di Cassazione. Nella sentenza Cass. Civ. sez. VI, 26.11.2013 n. 26365, la Corte ha chiarito che questo istituto ha carattere generale nel diritto dei contratti e può, pertanto, trovare applicazione anche nelle ipotesi in cui non siano applicabili gli artt. 1667-9 c.c.; è così possibile per il committente rifiutarsi di pagare il corrispettivo anche in presenza di vizi o di azioni giudiziarie non tempestivamente denunciati o intentate.
Ancora, secondo Cassazione civile sez. II, 17/05/2004, n.9333 “In tema di inadempimento del contratto di appalto le disposizioni speciali di cui agli art. 1667, 1668, 1669 ss. c.c. integrano – senza escluderne l’applicazione – i principi generali in materia di inadempimento delle obbligazioni e di responsabilità comune dell’appaltatore che si applicano in assenza dei presupposti per la garanzia per vizi e difformità prevista nel caso in cui l’opera completata sia realizzata in violazione delle prescrizioni pattuite o delle regole tecniche. Ne consegue che il committente, convenuto per il pagamento, può – al fine di paralizzare la pretesa avversaria – opporre le difformità e i vizi dell’opera, in virtù del principio inadempimenti non est adimplendum, richiamato dal secondo periodo dell’ultimo comma dell’art. 1667 c.c., anche quando non abbia proposto in via riconvenzionale la domanda di garanzia o la stessa sia prescritta”.
Va da sè, che l’applicazione dell’art. 1460 c.c. incontra il limite della buona fede per espressa previsione normativa; da ciò consegue che dovrà essere verificata la legittimità del rifiuto sollevato dal committente in proporzione all’entità dell’inadempimento non essendo ad esempio, legittimo il mancato pagamento dell’intero corrispettivo a fronte di inadempimento parziale e di scarsa importanza da parte dell’appaltatore.
Avv. TOMMASO GASPARRO
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